VERSO IL REFERENDUM DEL 22 OTTOBRE

VERSO IL REFERENDUM DEL 22 OTTOBRE

Di regionalismo, federalismo, indipendentismo ed altro…

 

Premessa

Il presente scritto non ha pretese di esaustività su una materia e questioni complesse.

La volontà è quella di offrire agli associati alcune informazioni, nozioni, orientamenti, ma anche spunti di riflessione, direttamente o indirettamente legati al referendum del 22 ottobre, in un quadro di dialettica e dibattito politico, prima ancora che di immediata e concreta mutazione dello status quo.

Scrivendo il presente documento sì è ragionato nell’ottica che il quesito referendario si situa in un più ampio quadro di riforma cosiddetta “federalista”, perché nella crisi del centralismo statale(1) acquista maggior consistenza una organizzazione della cosa pubblica di tipo federalista, che affidi competenze ai gradi intermedi e responsabilità ad associazioni più o meno ampie di cittadini, per il miglior governo della cosa pubblica e il raggiungimento del bene comune, a cui collaborano tutte le parti della realtà statale.

Federare vuol dire coordinare gli interessi locali in un quadro nazionale.

Esistono oggi vari esempi di federalismo realizzato, alcuni hanno esaltato le specificità, alcuni hanno consolidato il sentimento nazionale, altri lo hanno indebolito. A monte vi è l’annosa e irrisolta questione dei rapporti tra comunità e società, tra autonomie e deleghe, tra particolarità e uniformità.

Il referendum

Domenica 22 ottobre, dalle ore 7:00 alle ore 23:00, si terrà il referendum consultivo per l’autonomia delle regioni Veneto e Lombardia.

In molti alberga la confusione terminologica in merito ad autonomia e indipendenza, che non sono sinonimi, anche se per estensione spesso vengono considerati tali. Le recenti vicende legate al nullo referendum per l’indipendenza catalana, e la cacofonia che lo sta accompagnando, hanno acuito questa confusione.

I referendum consultivi annunciati dalle due regioni del Nord non chiedono la secessione, ma la concessione di una maggiore autonomia dallo Stato, guardando al modello delle regioni a statuto speciale. I due referendum si basano quindi sulla possibilità che hanno le regioni di chiedere al Governo più materie di competenza: la norma è prevista dal Titolo V della Carta Costituzionale sui rapporti tra Stato e Regioni, all’articolo 116.(2)

Il testo del quesito consultivo in Veneto recita: “Vuoi che alla regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?”; mentre in Lombardia: “Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma della Costituzione e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?”.

Da segnalare che in Lombardia verrà sperimentato, per la prima volta in Italia, il voto elettronico; non verranno applicati timbri sulla tessera elettorale.

 

Se vince il SÌ

In caso di vittoria del SÌ al Referendum, i governatori di Veneto (se si raggiungerà il quorum del 50,1% dell’elettorato) e Lombardia (dove non è previsto un quorum) intraprenderanno l’iter istituzionale necessario per chiedere ulteriori forme e condizioni di autonomia e relative risorse: un pacchetto di oltre 20 materie, alcune delle quali di competenza esclusiva dello Stato, altre – la maggior parte – a competenza concorrente.

L’iter si dovrà eventualmente concludere, dopo un’intesa col governo, con la presentazione di un Ddl al Parlamento che ratifichi con un’ apposita legge lo status di “Regione ad autonomia differenziata”; legge che, diversamente da quelle ordinarie, dovrà essere approvata a maggioranza assoluta.

Stiamo parlando quindi, al netto di tutte le congetture che si possono fare, della possibilità/capacità di enti e organi (regionali) di amministrarsi con maggiore autonomia nel quadro di un organismo più vasto (nazionale).

 

La posizione di Progetto Nazionale

La posizione di Progetto Nazionale in merito, come già esplicitato in un precedente documento politico del nostro presidente nazionale (http://www.pieropuschiavo.it/referendum-veneto-diciamo-si/), vuol essere chiara:

– nessuna preclusione in via di principio ad una eventuale futura revisione strutturale dello Stato italiano in ottica federalista, dicendo però, con franchezza, che non ci sarà alcun cambiamento nel breve-medio periodo per quel che riguarda le regioni interessate al voto;

nessun ammiccamento, verso ipotesi secessioniste o indipendentiste (“alla catalana”) che solleticano i pensieri di tanti sostenitori del SÌ;

è vero che per il Referendum verranno spesi milioni di euro pubblici (circa 50 in Lombardia e una quindicina in Veneto), ma sentire questa critica mossa dal PD che di denaro pubblico fa scempio (basti pensare alla scandalosa vicenda bancaria del Monte dei Paschi di Siena o alle risorse investite per favorire l’immigrazione antieuropea), oppure dal Movimento 5 Stelle da sempre assertore della bontà degli strumenti democratici e partecipativi – come dovrebbe essere quello referendario – fa sinceramente sorridere; come non rilevare poi le contraddizioni di forze politiche i cui vertici a Roma criticano il referendum,  mentre molti dei loro dirigenti ed amministratori veneti e lombardi si dichiarano pubblicamente a favore del SÌ, anche nel centrosinistra;

la realtà del potere politico-economico-finanziario mondiale ci impone due considerazioni ineludibili:

1) le consorterie che si spartiscono il mondo beneficiano delle frammentazioni e del caos organizzato;

2) viviamo in scenari geopolitici connessi alla categoria di “grande spazio”, delle grandi potenze regionali e continentali.

È alla volontà di potenza continentale europea, che dobbiamo quindi volgere il nostro sguardo, il nostro pensiero, i nostri progetti, se non vogliamo essere cancellati dalla storia e continuare ad esistere, anche fisicamente. Lo si può fare anche lavorando a formule concrete di ordinamenti nazionali altri rispetto all’attuale, che rispondano alle istanze locali e allo stesso tempo favoriscano l’integrazione del nostro continente. È una strada certo difficile e rischiosa, ma val la pena pensarla e tentarla. Perché i sentimenti vanno coniugati con le esigenze dei tempi, nella fedeltà ai princìpi e avendo ben chiaro che noi siamo tanto veneti e lombardi quanto italiani ed europei.

 

Voteremo Sì

Voteremo Sì per la valenza politica del voto, ma senza condividerne il tipo di valenza simbolica che per esempio vuol dare ad esso la Lega Nord, in relazione anche alla data del referendum (anniversario dell’annessione veneta al Regno d’Italia).

Voteremo SÌ in linea con quanto già espresso nel lontano febbraio del 2012 sul nostro foglio periodico La Scintilla, dove ci dichiarammo «per una destra federalista» perché l’idea del federalismo non poteva essere materia associata ad un insensato secessionismo.

Voteremo SÌ perché vogliamo uno scossone al sistema politico-amministrativo di un modello di Stato-Nazione in profonda crisi di identità, di rappresentatività, di efficienza.

Voteremo SÌ perché è indubbio che il cittadino può ottenere più agevolmente e più celermente una risposta concreta ad una richiesta per l’erogazione di un servizio presso un rappresentante della politica locale piuttosto che da un politico “romano”.

Voteremo SÌ perché l’Italia necessita di riforme, e quella che va verso il cosiddetto “federalismo” prospetta condizioni utili alla ricostruzione dei meccanismi pubblici.

Voteremo SÌ perché l’avvicinamento del cittadino al Palazzo genera un benefico effetto osmotico che responsabilizza l’uno e l’altro.

Voteremo SÌ perché maggior autonomia implica anche maggior responsabilizzazione degli enti locali che si trovano investiti direttamente di funzioni esecutive.

 

Tutto questo, ovviamente, senza illuderci e senza illudere, di trovarci catapultati dalla sera alla mattina in uno scenario da cui il parassitismo, le congreghe, i privilegi, gli interessi meschini, la corruzione, le vecchie realtà e prassi politiche spartitorie svaniscano per magia.

Quella della strada “federale” è un’ ipotesi interessante che andrebbe affrontata sia in chiave nazionale sia in chiave di una più grande Patria europea (confederale), nella piena consapevolezza però che non potranno essere misure di natura semplicemente ed esclusivamente economica a costituire le soluzioni, se dissociate da princìpi spirituali e di autorità; in estrema sintesi e per tracciare una linea guida: unità e molteplicità in un sistema di partecipazioni gerarchiche.

Il problema della rifondazione istituzionale è una questione che da nazionalisti è giusto porsi al pari della rifondazione della dignità dello Stato, dato che è proprio un certo tipo di centralismo ottuso, parassitario e vessatore a mettere benzina nel motore dei cosiddetti “secessionisti”, le cui rivendicazioni sono spesso esclusivamente di natura monetaria; ma non possiamo comunque ignorare aspetti come il problema di una vessazione fiscale probabilmente unico al mondo, oppure quello del residuo fiscale laddove per esempio la Lombardia ha un residuo fiscale di circa 54 miliardi e il Veneto di circa 18 che comparato – in contesti istituzionali differenti – a quello della Catalogna di 8 miliardi, e a quello della Baviera di 1,5 gridano vendetta.

Serve una maggiore equità e sensibilità nazionale verso le istanze locali senza per questo cedere il passo alla disgregazione.

È il Mondialismo e non il Nazionalismo, il nemico del localismo, e l’appartenenza nazionale non significa, necessariamente, Stato centralista, ma può coesistere con un ampio riconoscimento di autonomie locali.

Occorre una riforma istituzionale ma in una ottica più ampia, che rivesta cioè non solo il quadro delle maggiori autonomie, ma anche quello di una revisione in ottica presidenzialista della Repubblica (minor ricattabilità e maggiore stabilità governativa), e di un Senato autenticamente Federale o una Camera delle Autonomie (per affrontare in termini di imparzialità e di efficacia, le disparità e le contraddizioni che contraddistinguono le realtà regionali).

 

Strano ma vero…

Giova qui ricordare che il foedus/patto/unione (a sua volta aequum o iniquum) era una forma solenne di trattato di origine romana(2), che poteva presentare vario contenuto.

Troppo spesso scordiamo o ignoriamo che quello di un’ unione confederale dei popoli italiani era il sogno che animava i patrioti del primo Risorgimento.

Suonerà forse strano ad alcuni orecchi, ma nel lontano 1919 i Fasci di Combattimento proponevano – tra i tanti punti di rottura con la allora cosiddetta Destra conservatrice – le autonomie regionali(3), oltre alla convocazione di un’assemblea costituente, la Repubblica, l’istituto referendario, lo snellimento della burocrazia, etc.; il Fascismo non a caso fu un movimento di rottura assolutamente innovativo, ma questa è un’altra storia…

Stonerà altresì a certo auditorio il fatto che Carlo Costamagna(4) pensasse che, costituzionalmente, la forma federativa fosse la più adatta alla ripresa moderna di un’idea imperiale.

Si noti infine che la struttura federale non preclude agli Stati la possibilità d’essere fortemente e fieramente nazionalisti, l’esempio americano o quello russo essendo in tal senso assai emblematici.

A questo punto, le domande da porsi, anziché “federalismo sì o federalismo no?” dovrebbero essere altre:

– Un’idea istituzionale e sociale come il Federalismo, adattabile a svariate prospettive politiche, può contribuire alla rinascita nazionale?

-·È il Federalismo davvero una soluzione? E se sì, quale Federalismo?

-È possibile ripensare un nuovo modello di Stato-Nazione rispetto a quello odierno in crisi?

-Un progetto federale di Stato e di Europa possono essere una risposta alternativa al “centralismo” dell’UE, delle sue banche d’affari e dei suoi comitati?

Perché è l’Italia tutta oggi, e l’Europa intera, che dovrebbe reclamare la propria indipendenza!

Il Federalismo per noi dovrebbe avere valore non come obbiettivo in sé, ma andrebbe casomai impiegato come strumento più o meno efficace ed efficiente per il conseguimento di obbiettivi: siano essi il rispetto e la valorizzazione delle specificità o la lotta all’evasione fiscale e alla criminalità organizzata, la sussidiarietà o la maggior efficienza e riduzione delle imposte, il recupero di un ruolo geostrategico dell’Italia o la responsabilizzazione amministrativa.

 

ALCUNE PRECISAZIONI (per un’introduzione alla materia)

Federalismo

Federalismo deriva dal romano foedus (patto). Federalismo, che è al tempo stesso processo e struttura, significa restare uniti conservando ciascuno la propria identità; ogni collettività può assumere un assetto federale. È federale qualsiasi consenso basato, non sull’imposizione di uniformità, ma sulla conservazione dell’originaria diversità dei federati. L’idea federale risponde al bisogno dei popoli di unirsi per perseguire fini comuni, conservando però le rispettive peculiarità. Detto così, in estrema sintesi e semplificazione.

 

Federalismo o Regionalismo

In politica si usa oggi il termine “federalismo” richiamando indifferentemente modelli tra loro distanti. Quando si parla di “federalismo” si sente dire tutto e il contrario di tutto, volendo esprimere con questo termine tanto la maggior partecipazione localistica ad un potere ritenuto troppo centralista quanto la pretesa della secessione nazionale, tanto l’egoismo fiscale quanto il radicamento culturale.

Capita così che nell’approssimativo e marginale dibattito politico italiano si usa sovente ed in maniera impropria il termine “federalismo”, laddove invece andrebbe usato il più corretto termine regionalismo. In Italia infatti il modello in discussione è il Regionalismo. Il Federalismo presuppone l’esistenza di diversi stati sovrani che stabiliscono di federarsi cedendo parte della propria sovranità per formare un’ entità con sovranità superiore.

Teoricamente, peculiarità dell’idea federale è che le parti federate formano l’unità federale e non viceversa; i poteri locali devolvono competenze al potere centrale e non viceversa. L’equiordinazione tra Stato federale e Stati federati distinguerebbe quindi il federalismo dal modello di Stato unitario decentrato, in cui l’entità statuale è sovraordinata rispetto agli enti pubblici minori. L’esclusività delle competenze dei governi costitutivi, nonché il carattere talvolta residuale delle competenze del governo generale, distinguerebbe il federalismo dallo Stato regionale, in cui il potere degli enti pubblici territoriali ha quantitativamente minore rilevanza e va sempre qualificato come autonomia attribuita dallo Stato agli enti locali.

Vi è però una parte della dottrina del pensiero giuridico che sostiene invece non avere senso alcuno parlare di federalismo come tipo di Stato distinto e separato da altri tipi di Stato, che sono comunque strutturati in un ente statuale ed un certo numero di enti locali.

Sarebbe forse più corretto parlare in ogni caso di autonomia distinguendo tra forme più ampie e più ristrette di decentramento, ed identificando le materie che rientrano nella competenza – piena, esclusiva o concorrente – degli enti locali. Pertanto, la distinzione tra Stato federale e Stato regionale, essendo solo nominalistica, non avrebbe alcun valore scientifico. Sarebbe accettabile solo la distinzione tra Stato unitario e Stato che garantisce costituzionalmente le autonomie territoriali. A sostegno di questa opinione si afferma che il postulato della equiordinazione, in seno ad uno Stato federale, trova applicazione solo nei rapporti tra Stati membri, ma non fra questi e lo Stato federale, che ricopre sempre e comunque una posizione di supremazia, come attestano significative disposizioni delle più importanti costituzioni federali:

– il principio della supremazia della costituzione federale;

– la ripartizione, in sede di costituzione federale, tra le competenze del governo regionale e le attribuzioni dei governi costitutivi in modo che la suprema direzione politica spetti al governo generale;

– la competenza di un organo dello Stato federale in materia di revisione costituzionale;

– la competenza del governo generale a garantire la sicurezza e l’integrità nei confronti di qualsiasi pericolo, interno ed esterno, che comporti l’intervento dello Stato federale nell’ambito degli ordinamenti degli Stati membri indipendentemente dalla loro richiesta;

– la competenza del governo generale ad adottare misure di coercizione, anche mediante la forza armata, al fine di obbligare uno Stato membro ad adeguarsi ai doveri che scaturiscono dalla costituzione federale;

– la competenza di un organo giurisdizionale dello Stato federale a decidere i conflitti di competenza tra Stato federale e Stati federati, ad interpretare la costituzione ed assicurare l’uniformità del diritto.

Secondo i giuristi che negano l’autonomia concettuale del federalismo rispetto al regionalismo, una volta dimostrata la supremazia dello Stato federale sugli Stati federati, non avrebbe più senso richiamarsi a sottili distinzioni dottrinarie, ma sembrerebbe più corretto parlare sempre – cioè per qualsiasi Stato comunque definito – di ripartizione collaborativa del potere tra ente sovrano ed enti autonomi, i quali possono esercitare un insieme più o meno ampio di competenze.

La devoluzione di competenze – anche laddove viene presentata come transizione verso uno Stato federale, che concettualmente non esiste – porterebbe al rafforzamento dello Stato regionale e non a qualcosa di diverso. L’inconsistenza della differenza tra federalismo e regionalismo sarebbe confermata dal fatto che gli Stati federati di uno Stato federale possono avere meno competenze delle regioni di uno Stato regionale (per esempio i Länder austriaci rispetto alle comunidades autonomas spagnole).

Ora, al di là delle discussioni dei giuristi che non arrivano a differenziare compiutamente federalismo e regionalismo, resta il fatto che la devoluzione in Italia rafforza il regionalismo e, seppur non conducendo al federalismo, ne crea le premesse.

 

Federalismo o federalismi?

Al sostantivo federalismo vengono associati attributi tra i più vari, così che sentiamo parlare di federalismo sociale, federalismo amministrativo, federalismo fiscale, federalismo solidale…Tutti piani e concetti molteplici e non comparabili, che andrebbero ordinati a monte dalla scelta di un federalismo ideale di riferimento, da cui discenderebbe poi la definizione dell’assetto istituzionale (autonomia amministrativa, autonomia finanziaria – il cosiddetto federalismo fiscale – , autonomia legislativa).

Sarebbe sciocco parlare di strumenti senza sapere che direzione si vuol prendere.

Nella realizzazione di qualsiasi progetto federale si dovrebbe partire quindi dalla scelta, chiara ed esplicita, del modello ideale di riferimento, scelta dalla quale dipendono poi le decisioni conseguenti ed accessorie in termini di organizzazione ed assetto istituzionale.

I più ignorano infatti che non esiste un’unica idea di Federalismo, ma le nozioni di federalismo ideale sono invece molteplici e talvolta antitetiche, possiamo infatti parlare dei seguenti modelli di federalismo:

Federalismo imperiale

Federalismo contrattualistico

Federalismo integrale

Federalismo sociale

Federalismo solidale

E quando si parla di modelli di Federalismo ideale li si associa a personaggi del mondo della politica e della cultura che nel tempo hanno proposto vari federalismi, da Pierre-Joseph Proudhon a Johannes Althusius, da Vincenzo Gioberti a Carlo Cattaneo, fino a Gianfranco Miglio.

Non si capisce poi se, quando si parla di “federalismo” in Italia, si abbia in mente il federalismo tedesco, quello svizzero, quello statunitense, quello russo, quello spagnolo, quello austriaco, quello belga, altri o uno specificamente italiano…

 

Federalismo amministrativo e federalismo fiscale

L’iniziale attribuzione e successiva redistribuzione di competenze a vantaggio delle regioni, è stata spesso definita federalismo. A partire dagli anni 90′ si è diffuso l’utilizzo di termini come federalismo amministrativo, per identificare il decentramento attuato dalle “leggi Bassanini” (59/1997, 127/1997 e 191/1998), e federalismo fiscale per indicare il progressivo ampliamento dell’autonomia finanziaria delle regioni e degli enti locali. La normazione regionale è stata istituita, e successivamente ampliata, sottraendo talune materie alla legislazione statale e attribuendole alle regioni, seguendo un processo inverso rispetto a quanto avviene nella formazione di uno Stato federale (tanto per tornare alla polemica sull’uso improprio del termine federalismo…). Ne è risultato un sistema di autonomie, variante definito in dottrina – regionalismo avanzato, a due velocità, a geometria variabile – qualificabile federalismo solo nella misura in cui si accetti la sostanziale inconsistenza della distinzione tra federalismo e regionalismo.

Oggi in Italia, quando si parla di federalismo fiscale si sovrappone impropriamente la nozione con l’intero processo federalista, quando invece rappresenta il presupposto dell’autonomia regionale.

 

Modello federalista e modello regionalista

Tra i due modelli, quello federale e quello regionale, esistono comunque delle affinità come:

-l’esistenza di entità sub-statali (stati federali, regioni, province, comuni);

-l’esistenza di competenze garantite costituzionalmente (compresa anche quella legislativa e regolamentare) a suddette entità;

così come esistono importanti differenze:

-la natura delle competenze attribuite a queste entità substatali (in Italia le regioni, di norma, non hanno per esempio competenze giurisdizionali);

-il metodo di ripartizione delle competenze (in uno Stato federale vengono elencate le competenze statali mentre nello Stato regionale vengono elencate quelle regionali);

-il bicameralismo (previsto nelle costituzioni regionaliste, con la camera delle regioni);

-il procedimento di revisione della Costituzione, da cui sono escluse le regioni negli stati regionali;

-la competenza costituzionale (riservata allo Stato nei modelli regionalisti).

 

La Devolution

Dietro l’ennesimo anglicismo c’è il decentramento (“attribuzione di alcuni poteri precedentemente detenuti da un governo centrale a enti regionali o locali”), ossia quel processo in ambito regionalista attraverso il quale vengono assegnate autonomie crescenti alle regioni. Come già detto, la devolution appare oggi, all’atto pratico, come la strada percorribile in Italia verso la realizzazione di una sorta di “federalismo”, scansando deragliamenti secessionistici.

 

I rischi da evitare

È chiaro che la strada del federalismo comporta dei rischi, in particolare quello di portare ad un ulteriore indebolimento dello Stato, quello di potenziali derive centrifughe, quello dei costi.

Il problema dei costi impone di battere prioritariamente due strade:

– la strada della lotta alla criminalità organizzata (e più generalmente all’illegalità), perché alla criminalità organizzata si associano il parassitismo, gli sprechi e l’inefficienza della Pubblica Amministrazione, l’iniqua distribuzione del reddito. Una legalità debole vanifica la concorrenza, disincentiva gli investimenti e produce danni sociali;

– la strada della ristrutturazione della politica fiscale che punti alla crescita e produzione di reddito attraverso investimenti nei settori strategici (energia, trasporti, telecomunicazioni, settore agroalimentare e turismo). Risparmio e investimenti gli obbiettivi su cui focalizzarsi.

L’ineguale sviluppo economico della nostra Penisola implica notevoli problemi sul piano della gestione della spesa pubblica a seconda delle diverse zone d’Italia. Il drenaggio continuo di risorse impedisce poi alle cosiddette regioni virtuose di continuare a svilupparsi, di continuare a crescere e ad essere competitive. Questo comporta un progressivo impoverimento del Nord e, di conseguenza, una crescente difficoltà – fino a portare all’effettiva impossibilità – nel mandare risorse al Sud. Paradossalmente per mantenere le regioni meno virtuose occorrerebbe destinare più risorse a quelle più ricche, in modo da farle rafforzare ulteriormente.

L’eventuale percorso di riforma federale a cui noi guarderemmo con favore, non deve ammiccare e non dovrà sfociare in implosioni o secessioni e fughe di “macroregioni” verso calamite mitteleuropee (per esempio nel caso del Nord-Est), che ci porterebbero verso ulteriori sudditanze. È sensato che interlocutori privilegiati ed oggetto di relazioni speciali debbano rimanere per alcune regioni d’Italia aree economicamente confacenti, come ad esempio l’area della cosiddetta Mittel-Europa per il Nord-Est, quanto le nazioni del Mediterraneo per il Centro-Sud, in una visione però nazionale concordata e complementare.

Altrimenti lo scivolamento verso fratture secessionistiche comporterebbe la non “auto-sufficienza” dei blocchi produttivi regionali in un mondo globalizzato nel quale gli Stati risultano essere al momento le cinghie di trasmissione più efficienti tra le realtà locali e gli organismi internazionali. Lo hanno ben inteso alcune storiche realtà che, al di là della retorica elettorale, conti alla mano, stanno tirando il freno alla spinta “indipendentistica”…

Non particolarismo atomizzante quindi, ma visione d’insieme sia unitaria che autonomistica.

Questa la sfida cruciale dell’iter federalista per quella che è la nostra visione illuminata anche dagli indirizzi storici ellenico (anfizionie) e romano (foedus).

La nostra idea si basa su un percorso armonizzante (autonomie sì, ma anche Senato Federale e presidenzialismo) anziché disgregante, perché è facile indovinare che dietro la passione “federalista” di molti assertori del Sì referendario si celi, nemmeno tanto velatamente, l’illusione secessionista…

Di questo siamo consapevoli ma non per questo riteniamo di doverci dichiarare contrari a prescindere o di rinunciare ad entrare nel dibattito federalista, senza ricette magiche ma con una nostra idea figlia naturale della nostra visione del mondo: idea che fa leva sul senso di comunità, di identità e di comune destino, oggi vittime della razionalità mercantile.

 

L’emblematico caso della Catalogna

Un capitolo a parte merita il caso delle velleità storiche separatiste(5) della regione spagnola della Catalogna.

A prescindere dalla discutibile gestione del governo centrale spagnolo, che ha fatto guadagnare fiato, argomenti e simpatie ad una pagliacciata (il voto, cifre alla mano s’è rilevato una sconfitta) in salsa prevalentemente comunista, antifascista, antinazionalista, filo-immigrazionista, favorevole agli scempi del relativismo relazional-sessuale e alle forme alternative di “famiglia”, e intimamente mondialista; a prescindere da una consultazione illegale e anticostituzionale; a prescindere dalla farsa di modalità di voto e relativi controlli; a prescindere da numeri e percentuali che contraddicono la matematica…ci sarebbe da chiedersi quanto può contare al mondo, oggi, una Catalogna (o un Veneto e una Lombardia…) “indipendente”? A chi giova l’esacerbazione dello scontro venutosi a creare? A chi serve spingere verso una balcanizzazione dell’Europa?

E ci chiediamo poi cosa abbia a che spartire buona parte dell’elettorato medio leghista con gli epigoni del separatismo catalano e con le loro visioni sociali e politiche?

La Lega dovrà prima o poi sciogliere le proprie contraddizioni interne: secessionista e indipendentista o autonomista e nazionale? Identitaria e sovranista o egoista e bottegaia?

E gli “etno-secessionisti” in salsa nostrana, veneta e lombarda, cosa ne pensano della quarta comunità straniera più numerosa in Catalogna, quella italiana, con 49.000 residenti, il 5% circa della popolazione straniera nella regione? Chi glielo dice agli imitatori nostrani dell’imposizione monolinguistica che quasi metà dei circa 7,5 milioni degli abitanti della Catalogna non è di madrelingua catalana? E che almeno 900.000 sono nativi della sola Andalusia? Che l’immigrazione interna dal resto della Spagna, soprattutto dalle aree più povere del sud, da un secolo a questa parte è il principale sostegno dell’industria catalana? Dove sarebbe la presunta forte base etnica catalana in una regione dove si considerano catalani tutti coloro che vivono in Catalogna, stranieri compresi, purché rinuncino a sentirsi spagnoli? Non fa ridere che i più accaniti “indepes” sono figli degli emigranti spagnoli? Dal capo dell’Assemblea Nazionale Catalana che si chiama Sànchez, al cognome della deputata di Podemos che ha gettato via una bandiera spagnola deposta nella Generalitat nel corso di un dibattito che è Martìnez, al responsabile dei Mossos, Trapero, originario di Valladolid, Nuova Castiglia, allo stesso Puigdemont, dal cognome catalanissimo, ma in parte di ascendenza andalusa…

Certi secessionismi così come certi statalismi centralisti sono plasmati dalle stesse sozze grinfie mondialiste.

Non è il divide et impera la strada maestra da seguire, ma l’unione dei popoli storici della penisola sotto un unico tetto patriottico. In Spagna come in Italia!

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NOTE:

(1) In Italia sarebbe più pertinente parlare di “statalismo o centralismo debole” per l’uso municipale, localistico e familistico della pubblica amministrazione e dello Stato. Il diritto amministrativo vigente somiglia sì di più al diritto amministrativo francese di marca napoleonica, ma la pratica di tale diritto conosce tante e tali eccezioni che il termine centralismo forte appare inappropriato. Il vissuto politico italiano è anarchico-individualista e localista, abituato a vedere nella legge (e nelle imposizioni fiscali) uno strumento di oppressione e nella elusione della legge (e delle tasse) l’unica forma di lotta contro l’“oppressione”. Sono le basi sociali della vita italiana che hanno obbligato lo Stato ad essere “debole”.

(2) LA COSTITUZIONE, Parte II (Ordinamento della Repubblica), Titolo V (Le Regioni, le Provincie, i Comuni)

Art.116

Il Friuli Venezia Giulia [cfr. X], la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Südtirol e la Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale.

La Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol è costituita dalle Province autonome di Trento e di Bolzano.

Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata.

Art.117

La potestà legislativa è esercitata dallo Stato [70 e segg.] e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie:

  1. a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l’Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea;
  2. b) immigrazione;
  3. c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose;
  4. d) difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi;
  5. e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; armonizzazione dei bilanci pubblici; perequazione delle risorse finanziarie;
  6. f) organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo;
  7. g) ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali;
  8. h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale;
  9. i) cittadinanza, stato civile e anagrafi;
  10. l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa;
  11. m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale;
  12. n) norme generali sull’istruzione;
  13. o) previdenza sociale;
  14. p) legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane;
  15. q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale;
  16. r) pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale; opere dell’ingegno;
  17. s) tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.

Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.

Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.

Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza.

La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni.

La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia.

I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite.

Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive [3].

La legge regionale ratifica le intese della Regione con altre Regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche con individuazione di organi comuni.

Nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato.

(3) (…) Anticamente il nome Italia identificava soltanto il Meridione. In epoca romana fu progressivamente esteso a tutte le regioni peninsulari e padane, in particolare fu chiamata Italia la città di Corfinium (91 a.C.), situata nell’attuale Abruzzo, dove ebbe sede il governo della Lega Italica, costituita dai popoli insorti contro Roma per ottenere la piena cittadinanza romana ed un’equa ripartizione dell’agro pubblico, formato dai territori conquistati in guerra, di cui si erano illegittimamente impossessate le famiglie più ricche e influenti dell’Urbe.

Come espressione di sovranità, i popoli della Lega Italica coniarono monete d’argento. La più rappresentativa recava una testa femminile sormontata dalla scritta Italia e, sul rovescio, otto guerrieri schierati in due righe, con le spade rivolte verso il basso in segno di giuramento, ed al centro un nono guerriero, nell’atto di raccogliere e sancire il patto, che fu consacrato nel tempio di Ercole italico. Dopo alterne vicende militari, Roma risolse la questione in modo federalista. Allargo il diritto di cittadinanza, dapprima ad Umbri ed Etruschi, per farli restare neutrali, poi agli insorti della Lega e infine a tutti i popoli latini e italici, garantendo inoltre la rappresentanza di ciascuno mediante l’integrazione in una tribus, che erano circoscrizioni territoriali su cui si basava l’esercizio del voto nelle assemblee popolari. Erano in tutto 35, di cui 4 urbane e31 rustiche. Nacque così la nazione romanoitalica (90-89 a.C.) come epilogo di un processo di integrazione militare, culturale, sociale e razziale durato quattro secoli.

Non è corretto retrodatare l’unificazione dell’Italia peninsulare al momento in cui Roma ne ottenne il controllo militare (272 a.C.) per due ragioni. Innanzitutto perché la Respublica era intesa come res populi, formata cioè dai soli cives e non da tutti coloro che abitavano nei territori occupati. Pertanto, fino all’acquisizione della cittadinanza romana, la maggior parte dei Latini e degli Italici erano stranieri, anche se sottoposti a forme diverse di protettorato. In secondo luogo perché, dopo la vittoria militare contro le città della Magna Grecia – le ultime a contrastare il predominio di Roma sulla penisola – occorrevano ancora due secoli di integrazione pacifica affinché maturasse spontaneamente, negli stessi Italici, quel senso di appartenenza che li portò a rivendicare la civitas romana e la condivisione della terra, all’epoca principale fattore produttivo. Ciò con l’appoggio di numerosi tribuni e consoli romani, favorevoli all’allargamento del ceto dei piccoli proprietari per contenere l’estensione del latifondo. Essendo destinata ad appagare istanze sociali provenienti dal basso, la donatio civitatis a Latini ed Italici ebbe carattere costituente.

I confini della Respublica si fermavano al fiume Rubicone, presso Rimini. Paragonata all’Italia attuale, mancavano la Padania, la Sicilia e la Sardegna, che avevano il rango di province: erano cioè territori sottoposti ad occupazione militare, ad eccezione delle colonie, che erano insediamenti formati da veterani romanoitalici, e dalle principali città locali, cui venivano riconosciute forme diverse di autonomia. L’unità d’Italia, in forma assimilabile a quella concepita dai patrioti del Risorgimento, fu raggiunta all’epoca di Ottaviano Augusto, a cui il Senato conferì il titolo di pater patriae. Sul piano territoriale, ci fu formale integrazione solo a livello continentale. A parte le città già insignite della cittadinanza romana e le stirpi celtiche già integrate nelle tribus cittadine, i popoli padani passarono alla condizione di cives quando la Gallia Cisalpina cessò di essere una provincia (42 a.C.) e il confine settentrionale della Respublica fu spostato alle Alpi, venendo esteso dal fiume Varo, presso Nizza, al fiume Arsa in Istria (…)” (fonte: “FEDERALISMO E RIVOLUZIONE” di Raffaele Ragni, pp.gg. 21, 22, 23)

(4) Vengono poi elencati i punti programmatici del nuovo gruppo politico: ‘costituente nazionale…per procedere alla radicale trasformazione delle basi economiche della vita sociale’, ‘…decentramento del potere esecutivo, autonomia amministrativa delle regioni e dei comuni a mezzo di propri organi legislativi…’ (http://www.ilgiornaleditalia.org/news/la-nostra-storia/853428/San-Sepolcro–23-marzo-1919.html)

(5) Carlo Costamagna (1881-1961). Giurista, storico delle dottrine politiche e teorico del corporativismo, cercò di elaborare in termini scientifici la “dottrina del fascismo”, ossia di delineare in termini di sistemazione dottrinaria, il quadro economico-politico, istituzionale e costituzionale scaturito dalla Rivoluzione fascista, cogliendo, soprattutto, gli elementi di novità della “Rivoluzione” rispetto alle ideologie democratico-liberali e socialiste.

(6) “(…) la Catalogna non è mai stata un regno indipendente ma una provincia del regno d’Aragona, L’unione dei territori della contea di Barcellona e del regno d’Aragona avvenne grazie al matrimonio di Ramon Berenguer IV, conte di Barcellona, con Petronilla d’Aragona (1137). Da quel momento i due territori, pur essendo autonomi, confluirono in unione personale nella figura dei re di Aragona (e non di “Catalogna”) ed andarono a formare la cosiddetta “Corona d’Aragona”. Il figlio di Ramon Berenguer IV e Petronilla, Alfonso II, ereditò entrambi i titoli, che furono assunti da tutti i suoi successori. Ciononostante, l’unione personale comportò il rispetto delle istituzioni preesistenti e dei parlamenti di entrambi i territori. Il Regno d’Aragona con Ferdinando II il Cattolico si fonde per via matrimoniale con il Regno di Castiglia e Leon di Isabella I, dando vita alla Spagna unita nel 1469 e mantenendo le Cortes catalane e aragonesi. I re cattolici restaurarono l’autorità reale in Spagna, e per giungere al loro scopo, crearono un’organizzazione nominata Fratellanza. Questa forza di pace venne utilizzata come una vera e propria polizia nel territorio del regno. Per sostituire i tribunali, i re cattolici crearono il Consiglio Privato di Sua Maestà, e nominarono dei magistrati (giudici) per amministrare le città. Questa regolamentazione di natura reale è nota come pacificazione di Castiglia, e fu la base per la costituzione di una delle prime nazioni moderne d’Europa destinata a diventare egemone non solo nel continente, ma oltre l’Oceano Atlantico, sino al Pacifico e alle Filippine. Plus Ultra, come recita il motto che da allora è associato alle Colonne d’Ercole.

(…) La Catalogna ha la stessa storia del resto della Spagna, anzi, delle Spagne, dalle conquiste oltremare e in Italia a tutto il Siglo de Oro, sino alle guerre di Fiandra e dei Trent’Anni, in cui ci fu l’unico momento di separazione tra Spagna e Catalogna, alle guerre per l’egemonia europea alle guerre napoleoniche e a quelle carliste (non a caso l’unico tercio carlista non navarrese era il Tercio de Nuestra Senora de Montserrat). L’unica volta che la Catalogna è stata separata da Madrid fu alla metà del XVII secolo, durante la Guerra dei Trent’Anni. Il declino del commercio in Oriente per l’irrompere dei turchi e l’esclusione dal commercio con l’America a favore della Castiglia avevano creato un risentimento anticastigliano e separatista. Pur di sottrarsi al dominio di Filippo IV, la Catalogna si dette alla Francia nel 1640 ma soltanto dodici anni dopo tornò sotto la corona spagnola, nel 1652 quando grazie in buona parte ai tercios aragonesi conquistarono Barcellona.

Alla faccia dei separatisti odierni, si trattava quindi di una Catalogna non indipendente, ma divenuta provincia francese, avente come sovrano Luigi XIII! Durante la guerra di Successione Spagnola (1700- 1713), quando il duca di Anjou Filippo V di Borbone, nipote di Luigi XIV, sconfisse l’arciduca (e poi Imperatore del Sacro Romano Impero, e padre di Maria Teresa, per chiarire) Carlo VI d’Asburgo, nipote dell’imperatore Leopoldo I, venne riconosciuto Re di Spagna e Imperatore delle Indie dalle Cortes catalane e aragonesi. Ed entrambi rivendicavano il titolo di Re di Spagna, Sicilia, Napoli e di Navarra, duca di Milano, del Brabante etc etc etc e Imperatore delle Indie. Non certo di “Catalogna” che solo per gli ignoranti ha una storia diversa dalla Spagna. La sconfitta di Carlo VI comportò la soppressione delle sue istituzioni autonome. Nel 18° sec. Carlo III di Borbone concesse ai catalani il commercio con l’America: al risveglio economico e culturale si accompagnò lo sviluppo di tendenze autonomistiche, il cosiddetto “catalanismo”, movimento politico e culturale che, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, oppose al centralismo spagnolo l’idea della Nacionalitat catalana. Dal catalanismo ebbe origine la Lliga regionalista, fondata nel 1901, che avviò un processo di autonomia, realizzatosi parzialmente nel 1914 con il riconoscimento da parte del governo spagnolo della Mancomunitat de Catalunya, organo amministrativo superprovinciale, poi soppresso nel 1925 da Primo de Rivera.

Caduto il regime di de Rivera, l’ascesa del nazionalismo repubblicano e radicale trovò espressione nella Esquerra republicana de Catalunya, che, vinte le elezioni del 1931, proclamò l’effimera Repubblica catalana, che esistette solo sulla carta. L’anno successivo, infatti, un compromesso raggiunto con Madrid portò alla creazione di un governo regionale autonomo e a uno Statuto di autonomia, approvato dai catalani in un referendum e sancito dal Parlamento spagnolo (1932). Come si vede, nemmeno sotto la famigerata repubblica del 1931- 39 la Catalogna è stata indipendente, e forte fu la Falange, malgrado i massacri dell’inizio della guerra. A soffiare sul fuoco indipendentista furono semmai, come nel 1640, i francesi desiderosi di utilizzare le Baleari come basi navali in vista di uno scontro- ritenuto imminente- contro l’Italia. All’inizio dell’offensiva nazionalista in Catalogna nel 1939, Parigi fu sul punto di appoggiare direttamente i rojos, malgrado l’opposizione dei vertici militari, venendo trattenuto solo dalle proteste britanniche e della minaccia italiana di intervenire a propria volta direttamente, anche a costo di iniziare una guerra europea, come avvertì Galeazzo Ciano, aggiungendo che in caso di intervento francese in Spagna il Regno d’Italia avrebbe fatto sbarcare immediatamente due divisioni a Valencia, anche se ciò dovesse provocare la guerra mondiale.

La Francia, anche al di là di ragioni di affinità ideologiche tra il governo socialcomunista di Leon Blùm e i repubblicani, aveva infatti un fortissimo interesse strategico perché la Catalogna diventasse indipendente, sia per motivi commerciali, come grande mercato aperto alle esportazioni francesi, sia per motivi strategici: una Spagna divisa e debole avrebbe incrementato l’influenza di Parigi nel Mediterraneo occidentale, anche con la concessione di basi nelle Baleari. E la situazione oggi non è diversa. Cambiano solo i protagonisti dietro le quinte, non il colore.” (http://www.ilprimatonazionale.it/esteri/catalogna-73650/)

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Per un ulteriore e stimolante – seppur non esaustivo – approfondimento della tematica si consiglia la lettura dei seguenti testi da noi consultati per redigere questo documento:

“Uno, nessuno e centomila” POLARIS La Rivista, n.10, Estate 2012, a cura del Centro Studi Polaris;

“Federalismo e Rivoluzione” di Raffaele Ragni, 2009 (seconda edizione, riveduta e ampliata) a cura di RINASCITA Quotidiano di Liberazione Nazionale;

“Il Federalismo Imperiale. Scritti sull’idea di Impero 1926-1953” (a cura) di Giovanni Perez, 2004, CONTROCORRENTE EDIZIONI (Quaderni di testi evoliani n.39);

“Fondare lo Stato Europeo. Contro l’Europa di Bruxelles” di Gérard Dussouy, 2016, Controcorrente Edizioni;

“Cosa significa oggi essere di destra? Alla ricerca di un popolo diverso e di una nazione negata” di Marcello De Angelis, 2017, LUIGI PELLEGRINI EDITORE;

– “Il sacco del Nord. Saggio sulla giustizia territoriale” di Luca Ricolfi, Edizioni Guerini e Associati;

– “Identità e Comunità” di Alain De Benoist, 2005, Guida Editore;

– “Oltre il moderno. Sguardi sul Terzo Millennio” di Alain De Benoist, 2005, Arianna Editrice

A cura del Gruppo Ricerche e Documenti – Progetto Nazionale

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